Pubblicato il 19 Novembre 2024 Come molti sono entrato dalla portineria di viale Piave. Nella storia dell’Opera San Francesco quell’ingresso è legato all’immagine di fra Cecilio che distribuisce cibo caldo. Ci sono pochi ma significativi documenti fotografici, che bastano per raccontare quanta strada è stata percorsa e al contempo per dirci che esiste una inquietante contraddittoria continuità. Questo luogo che nasce come refettorio mette l’accento sulla fame ma una volta accolti negli spazi dell’Opera San Francesco è inevitabile rendersi conto che la fame è solo uno dei picchi della povertà, non mai estranea alla pur opulenta Milano. Che la miseria sia sintomo di una società imperfetta non è difficile spiegarlo; è più complicato invece, al di là dell’ingegno politico e amministrativo per sradicarla, opporre forme non retoriche di concreto contenimento. Quando si entra all’Opera San Francesco ci si rende conto quasi immediatamente che l’esercizio della carità non appartiene alla sua versione sentimentale, alla letteratura dell’obolo. Mi accompagna fra Marcello. C’è una tradizione secolare dietro al suo complesso ottimismo: se ne avverte subito l’affabile solidità, ed è quella stessa solidità che, lettori fedeli del Manzoni, abbiamo appreso attraverso la figura di fra Cristoforo. Mi sono immaginato i don Rodrigo del quartiere, borghesissimo, compreso fra via Mozart e tutto corso Indipendenza. Le relazioni sono buone – mi dice Fra Marcello – ma una percentuale di ostilità esiste. Inevitabile. Non è facile la convivenza fra il motore della carità e il decoro delle dimore dei primi dieci anni del secolo (ai quali il poeta Clemente Rebora dedica i suoi Frammenti lirici), e tuttavia esiste, anzi è sempre esistita. Anzi, alle risorse di quella convivenza si deve, negli anni Cinquanta, l’incontro fra il “dottor Grignani” e Fra Cecilio, fra le risorse di una grande impresa farmaceutica e la febbrile industriosità dell’ordine dei Cappuccini. Ecco, appunto: industriosità. Mi lascio condurre attraverso una sequenza di uffici, verso lo sportello di corso Concordia, le docce, il servizio guardaroba, le cucine, la sala mensa. Ho la netta percezione di quella industriosità, e della condotta che ne consegue: la leggo nella sollecita inflessibilità opposta al caos che preme da fuori. Non si possono, come si dice, far sconti. Tanto più si esige in termini di rigore tanto più si riesce a dare. Sennò è di nuovo caos. Che è ostile a ogni vera forma del fare e del far bene (come ho imparato da mio padre operaio metalmeccanico e dalla gioia che gli dava un utensile trattato alla fresatrice come si deve). E qui mi dico, vedi, qui vige una concentrazione che suscita quasi stupore: la riconosco nel governo degli ingressi in mensa, nei gesti pacati che informano la consegna degli indumenti puliti, nell’invito a pulire il vano doccia. Mi piacerebbe dar conto dei gesti – siamo gesti, lo so, è lì che ci misuriamo uomini. E mi piacerebbe dar conto delle facce che ho visto e anche in quelle, nella loro mite bellezza, riconoscere il piglio industrioso – a volte mi verrebbe automatico dire “aziendale”. E forse l’azienda c’è, ma senza le maniere e lo sguardo sospeso dei funzionari. I dipendenti e i volontari dell’OSF lavorano, anzi lavorano duro, work like the devil, come dice un blues americano, ma qui the devil se ne sta incupito in disparte. Qui forse lo scambio fra la produzione e la ridistribuzione della ricchezza può registrare anche uno scambio di ruolo; nel senso che qui le aziende possono ben apprendere come fare profitto senza cedere all’acre assillo del profitto. Milano è cambiata; a certa sociologia piace dissertare su una “Milano inventata”, tutta fondata su strategie di comunicazione. Può darsi, ma una metropoli, quando cambia, bisogna saperla guardare attraverso un taglio prospettico che non trascuri le contraddizioni (gli acuti di City Life e il degrado del Quartiere Salomone Zama che Papa Francesco ha voluto visitare), senza abbandonarsi alla nostalgia della città “di una volta”. Anche le case sono gesti a cui rispondere, al di là della loro prima destinazione, sia che portino addosso la disperazione delle periferie sia che “recitino” la creatività della finanza. Che OSF sia parte di un paesaggio, effettivamente nuovo, ci suggerisce che l’“invenzione” non tocca il tessuto connettivo della città. Dentro l’orizzonte degli archistar c’è una vigorosa contaminazione sociale. OSF è stata e continua a essere un sensore sociale: dopo la povertà del dopoguerra, sono arrivati gli immigrati dal sud, quelli che ha raccontato Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli, e dopo quelli l’Est, il Medio Oriente, e tanta parte del continente Africa. Sono tutti in fila in corso Concordia e sono il mondo, il mondo così come è stato ridisegnato da guerre, deprivazioni, desertificazioni. All’Opera San Francesco di Milano, l’industriosa Milano ricomincia, lascia il segno e si lascia raccontare. Alberto Rollo è scrittore, traduttore e critico letterario. Ha lavorato per anni nelle più grandi case editrici italiane contribuendo alla pubblicazione in Italia di diversi autori italiani e stranieri. È stato anche docente di scrittura creativa in molte scuole del paese.