Ho cercato in questo periodo di leggere e di aggiornarmi sul tema dell’immigrazione. Tema soprattutto quello degli sbarchi che è stato e continua ad essere in primo piano. Costantemente sotto la lente dell’opinione pubblica. Si può notare il crescendo di dichiarazioni, repliche e interventi, spesso gridati e sopra le righe. Tutti abbiamo avuto modo di ascoltare il dibattito che si è scatenato intorno alle ONG, alle drammatiche notizie di oltre mille morti nel Mediterraneo in soli sei mesi del 2018, alla scelta di indirizzare le politiche italiane in materia di immigrazione verso una gestione inflessibile e severa del fenomeno.

Cito perché lo ritengo appropriato un intervento del card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente nazionale della Caritas: “Ciò che sta accadendo in termini di immigrazione ci impone di fermarci, come Chiesa e come comunità di persone, per interrogarci su quali debbano essere le nostre scelte e le nostre posizioni. La tentazione di appiattirsi su opinioni comuni e banali è tanta, ma il coraggio della fede che ci deve spingere a parlare di questa nuova umanità, che arriva dall’altra parte del mare e ci chiede aiuto, assistenza, protezione. Un’umanità diversa, nuova, che non conosciamo e della quale per questo abbiamo paura, ma che è molto più simile a noi di quanto pensiamo. Le loro storie si intrecciano con le nostre”.

È vero che non possiamo risolvere problemi complessi come quelli dell’immigrazione e della povertà – che esigono politiche al servizio di tutti, nel rispetto della dignità di ciascuno – ma come cristiani abbiamo il dovere di affrontarli osservandoli con la lente di Dio, che è quella della compassione. I poveri e gli ultimi sono un termometro per la nostra fede. Non accoglierli, chiudendo non solo i porti, ma il nostro cuore, significa non riconoscere Dio presente in loro, e perciò rifiutarlo. Mi chiedo, rifiutare Dio non è una forma di ateismo?

Più volte Papa Francesco ci ha invitato a sporcarci le mani, e soprattutto a non trincerarci dietro un silenzio talvolta complice. La nostra bussola siano le parole del Papa che ammette: “Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito… Anche i nuovi arrivati hanno delle paure: temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento. Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto”.

Francesco d’Assisi o Fra Cecilio hanno vissuto responsabilmente l’incontro con il lebbroso e la povertà del loro tempo. Non si sono mai sottratti agli insegnamenti del Vangelo. Hanno testimoniato con la loro vita e con la parola l’urgenza di soccorrere quell’esercito di poveri che l’egoismo umano ci consegna in ogni stagione della storia. Stare dalla parte degli ultimi non è uno slogan per campagne elettorali e neppure l’entusiasmo di un momento. È compassione intesa come partecipazione alla sofferenza dell’altro. Non un sentimento di pena che va dall’alto verso il basso. Si parla di una comunione concreta con un dolore che non nasce come proprio, ma che porta ad un’unità ben più profonda e pura di ogni altro sentimento che leghi tra loro degli esseri umani. È la manifestazione di un tipo di amore incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in cambio.

La lente di Dio che è la compassione ci aiuti a essere prudenti nel giudizio, capaci di una parola che richiami ai valori e abbatta il muro del silenzio, e soprattutto pronti e solidali nel servizio e nella carità.

Un caro saluto di pace e bene.

padre Maurizio Annoni