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Akara oggi è un uomo di 30 anni. Quando ha lasciato la sua città natale, Walewale in Ghana, ne aveva solo venti. Lo abbiamo incontrato nel Poliambulatorio OSF di via Antonello da Messina dove è seguito dagli psicologi che l’hanno preso in cura da qualche tempo. Ora sta meglio, si è ben integrato in Italia e a Milano dove vive e lavora, ma il percorso che l’ha portato sino a qui è dei più atroci e dolorosi che abbiamo ascoltato.

Oggi il Ghana è considerato un paese tra i più sicuri in Africa e anche dal punto di vista economico e politico gode di una certa stabilità che lo rende attrattivo dal punto di vista turistico. Quel che in pochi sanno, è che in molti territori sono ancora in vigore credenze spiritiche e rituali che condizionano la vita di tutti i giorni della popolazione. Venire a contatto con queste pratiche, può voler dire correre rischi per la propria incolumità.

È ciò che è successo alla famiglia di Akara che ha visto prima morire il proprio capofamiglia in circostanze non del tutto chiare e in seguito ha subito il rapimento della madre di cui, a tutt’oggi, nessuno conosce l’epilogo. Sembra un racconto d’altri tempi, qualcosa legato a usanze e riti lontani, ma è accaduto solo pochi anni fa. Per questo Akara ha voluto partire, per ricominciare la sua vita lontano dai brutti ricordi, ripartendo altrove grazie all’aiuto di sua moglie. In realtà però non è riuscito a dimenticare: per molto tempo non ha dormito la notte, perseguitato da incubi che riguardavano non solo la sua famiglia d’origine lasciata in Ghana ma anche ciò che ha dovuto sopportare nelle sue esperienze in Libia e nella traversata in mare.

Akara ha vissuto in Burkina Faso, in Niger, Mali, Algeria, Germania, Inghilterra e Italia. È stato imprigionato senza conoscerne il motivo, ha visto l’orrore della guerra in Libia, ha attraversato il Mediterraneo su un gommone e visto morire suoi compagni di viaggio. Ma ciò che più di tutto gli ha impedito di vivere sereno, è stato il pensiero di aver lasciato in Ghana la propria giovane moglie e i suoi 3 figli. Ha dovuto farlo quando è tornato nel suo paese per cercare la madre di cui non sapeva più nulla: non poteva intraprendere quel viaggio con dei bambini piccoli ed è partito solo, sperando di tornare con la madre. Ma non è più riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia.

Ha temuto spesso di morire e a stento è riuscito a procurarsi di che vivere ma, ci dice (in inglese, perché ancora fatica a esprimersi in italiano): “In questi anni ho incontrato molte persone che mi hanno aiutato e le ringrazio. Senza di loro non sarei qui”. Ricorda per esempio il suo capo in Libia, per il quale faceva il pastore che, in molte occasioni, l’ha protetto e consigliato al meglio per non correre pericoli nel paese in guerra. Ma più di tutti ringrazia sua moglie che, fino a quando le è stato possibile, l’ha incoraggiato e sostenuto.

Il rammarico più grande è che, dopo anni di ricerche e continui ostacoli, Akara abbia ritrovato la moglie e sia riuscito a parlare con lei, anche se solo per telefono, quando ormai lei era sposata a un altro uomo. Un dolore profondo, che anche oggi lo segna senza però impedirgli di nutrire speranza nel futuro.

“In Italia ho avuto la possibilità di ricominciare. Soprattutto di essere curato, di affrontare i miei demoni. Mi sento comunque fortunato e voglio restituire almeno in parte ciò che mi è stato dato. Per questo il mio desiderio ora è quello di studiare per diventare assistente sociale. Spero di riuscirci.”

 

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