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È una volontaria relativamente giovane Carlotta, sia per età che per anzianità di servizio. Ha 32 anni e ha iniziato in OSF nel novembre 2020. “Ho fatto diverse esperienze di volontariato nella mia vita: ho lavorato nell’ambito dei migranti, dell’antimafia, fatto doposcuola. Per la pandemia mi sono fermata e poi ho sentito il desiderio di fare qualcosa di pratico che non mi desse frustrazione come quando non vedevo a breve termine i risultati del mio lavoro. Mi sono guardata attorno. Avevo bisogno di concretezza. Tutto è nato grazie a mia mamma. Lei riceve la newsletter di Opera: in quel periodo cercavano volontari. Volevo fare qualcosa di cui fossi davvero convinta e dove poi rimanere. Ero indecisa tra il Guardaroba o la Mensa. E alla fine c’era posto in Concordia. Mi sono subito molto appassionata. E ora sono referente dei volontari del venerdì sera.”

Chiediamo a Carlotta di ricordare il suo primo turno: “Era un periodo un po’ particolare: nel pieno della seconda ondata di pandemia. Era inverno. Non avevo assolutamente idea di cosa volesse dire fare volontariato in mensa con così tante persone. Perché in quei giorni servivamo anche 900 persone a cena. Dovevo entrare in Mensa per iniziare il servizio ma non sapevo dove fosse l’entrata per i volontari. C’era una signora tra gli ospiti che attendevano in fila, che mi ha preso per mano e mi ha indicato la strada. Si chiama Peira. Le parlo ancora oggi, anche se lei è muta e dunque ci capiamo a gesti. È stata molto carina, mi ha sempre fatto dei grandi sorrisi. Il primo giorno sono arrivata con molto entusiasmo ma la cosa che da subito mi ha più impressionata è la solitudine degli ospiti. Molti li vedono come ‘i poveri’, ‘i senza fissa dimora’, ‘i senzatetto’. Di colpo vengono appiattite tutte le peculiarità di chi arriva da noi per consumare un pasto caldo. In realtà ognuno ha la sua storia, e c’è un mondo dietro ognuno di loro.

Alcuni vengono con il loro gruppo e li senti parlare di calcio, di politica, di attualità. Altri invece sono sempre soli. Il primo giorno sentivo molto di più la differenza tra me e loro. Oggi invece mi rendo conto che, parlandoci, potrei essere anch’io in mensa. Sono tante le persone che hanno avuto famiglie e relazioni difficili, che li hanno portati a essere soli, e dunque a rivolgersi ad Opera. Quello che fa la differenza sono le relazioni e gli affetti.

Quando esco dalla Mensa dopo il servizio, vado a casa a piedi. Passando dal Duomo vedo moltissimi ospiti. Prima erano per me “i senza fissa dimora”, adesso io li conosco, non tutti ovviamente, ma è come vedere un’altra Milano, una Milano che gli altri non vedono. È venerdì sera, c’è chi va al ristorante, chi va a bere, e loro invece cercano rifugio, si mettono sotto le tettoie.”

Per concludere, una domanda che facciamo spesso ai nostri volontari, perché lo scopo è sempre migliorare i servizi di OSF, cioè cosa manca ancora?

“I nostri sono tutti servizi indispensabili, ma il tema alloggi è molto centrale a mio parere. Poi ribadisco il tema della solitudine, che è ancora poco affrontato e dovrebbe essere primario, al pari di dare cibo a chi è affamato. Per me la solitudine è il grande killer. Penso a strutture in cui le persone si possano incontrare e stare insieme. So che non è semplice. Se sei da anni ai margini della società è difficile riconquistare dignità e autonomia, sentirsi dentro la società. Ma occorre provarci. Una cosa che secondo me potremmo provare a fare è organizzare una festa per gli ospiti, in cui tutti si sentano inclusi. In cui ci sia spazio per un po’ di leggerezza. Un’idea di aggregazione per abbattere il muro tra noi e gli ospiti.”

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